Carestia

Poi cominciarono a sparire le parole. Già gli incontri erano diventati rari, e perlopiù casuali, dentro un bar o per strada, davanti al supermercato. E allora le parole ancora si sprecavano, ancora qualche buon sorriso e occhi dentro gli occhi. Come se nulla fosse cambiato. Ma bastava riavviare il motore dell’auto per capire come stavano le cose.

È un problema sociale, mi spiegava Nina, i tempi differenti dei nostri cicli biologici e degli ingranaggi sociali che ci catturano portano a ciò. Pensieri poveri e parole stanche. Bastano le emoticon, mi diceva.

Io la prendevo in giro, le dicevo parole inconsuete e le inviavo messaggi colmi di faccine e cuoricini che rimanevano inchiodati al display, crocefissi alle spunte azzurre.

Era un mondo che cominciava a dimenticare se stesso.

Ho imparato le parole da piccolo, le scrivevo su un quaderno senza tanti colori e le leggevo, lentamente, sul libro da sfogliare immediatamente, appena comprato. E avevano un odore tutte quelle parole, odore di nuovo. Sono cresciuto cercando parole, tra le vetrine dei negozi o i fumetti di Topolino, nei libri senza immagini e nelle confezioni di biscotti. Ne avevo innumerevoli tutt’intorno e cominciavo ad usarle per costruire pensieri. È possibile “sentire” come mio fratello? Esiste dio? Perché due persone stanno insieme?

Nina diceva che i pensieri erano stati confezionati, non sarebbe stato più necessario crearli, bastava recuperare qualche bel pensiero altrui. Le chiamava citazioni e aforismi. Una semplice ricerca su Google mi avrebbe reso molti più pensieri di quanti ne potessi creare io con le stesse parole. Ma a Nina non piaceva usare pensieri altrui, le sembravano foulard di seconda mano, sicuramente sgualciti ai bordi. Così spesso rimaneva in silenzio, come davanti ad una sacra scrittura orientale.

E allora le sussurravo che anche i silenzi contengono parole, molte di più di quanto si potesse immaginare. Come un cassetto dimenticato da tempo e colmo di piccoli oggetti che aprono i mondi che abbiamo attraversato, così nei silenzi ci sono le parole che ci hanno attraversato e che ci uniscono ancora. Parole vecchie o assurde o semplicemente facili da dirsi l’uno all’altra.

Ricordo, da ginnasiale, il piacere della scoperta delle parole antiche che si nascondono nelle nostre, migliaia di anni a conservare termini densi di umanità, λόγος, φίλος, πάθος, αστέρι, εγώ, ειρήνη, biologia, filosofia, patire, asteroide, egoismo, Irene. Il piacere di raccontarle a mia madre o a mio padre e di avvertire l’immenso respiro del mondo, le sue fatiche, e i dolori e i piaceri, le pene e le illusioni, la speranza di uscirne vittoriosi, da qualche parte o in qualche silenzio, un giorno o l’altro, poco prima che vengano spenti respiri e pensieri.

Nina mi diceva che aveva ricevuto un piccolo biglietto, strappato da un foglio a quadretti, con su scritto “tvb” e un cuore rosso. Nient’altro. Era il biglietto di un bambino di nove anni, figlio di una sua amica. Mi guardava per farmi capire che non sarebbero servite parole e parole per farla stare meglio, un tvb con un cuore erano stati sufficienti. Aveva, negli occhi, un leggero tremolio di vita, come quando hai compreso che qualcosa sta cambiando pur non sapendo cosa. Aveva, nello sguardo, un cuore rosso di bambino.

E mentre l’abbracciavo avrei voluto dirle che un biglietto come quello è linfa vitale, è sangue che scorre, tremore di piacere ma cento biglietti come quello sono noia che vive, pensieri morenti, occhi perduti. Avrei voluto dirle ti amo cento volte e null’altro, perché incapace di dire altro, di pensare altro, di essere altro. Condire il mio silenzio di nulla, senza parole da poter dire, solo due parole ormai prive di significato. Avrei dovuto farlo, per farle capire. Ma non feci nulla.

Così le parole cominciavano a sparire, si consumava la prima carestia del millennio, tra  gli attentati terroristici e le crisi finanziare le prime a sparire erano le parole, e si cominciava a sparire anche noi, simboli e segni ridotti al minimo, ci si accontentava di un display che si illuminava di tanto in tanto. Sentivamo le parole cadere in fondo e i sogni scivolare, non era necessario pensare, avevamo Google sempre a portata di mano.

Nina mi ha lasciato, adesso disegna cuori rossi per un sito di gif animate. L’ultimo messaggio diceva “scusami tvb”, senza punteggiatura.

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