Giri di giostra

Mi sono nuovamente dimenticato di me. Capita sempre più spesso, ormai, dinanzi ad una scena d’abitudini in strada o dentro casa, tra le mura che adornano un vivere senza sussulti e senza voci. All’inizio mi divertivo, sorridevo tra me e me alla ripresa della mia coscienza e non riuscivo a comprendere chi riprendesse cosa o se qualcosa riprendesse chi. In genere provo un leggero giramento di testa, qualche giro appena di giostra, e poi nuovamente la linea retta che mi porta in giro un po’ lì fuori nel mondo e più spesso qui dentro, nella voragine che racchiudo tra i capelli sempre più grigi e due piedi abituati a camminare senza sofferenze. “Oggi mi sono dimenticato di me” e sorrido osservando un vuoto che riempio di volti amici e interessati.

La caffettiera è, comunque, sul fuoco, colma d’acqua e caffè appena macinato. Scelgo una miscela che mi hanno consigliato alla torrefazione sotto casa, dal profumo intenso e persistente. Amo misurare la polvere macinata a cucchiaini rasi, e chiudo gli occhi ogni volta che apro il barattolo del caffè inspirando profondamente l’aroma che, custodito all’interno, sembra brami fuggire in cerca d’aria. Il caffè comincia ad uscire nero e cremoso, dove sia stato colui che adesso osserva la bevanda formarsi non è dato sapere, forse sono andato alla ricerca del fondo della voragine, ma solo per pochi minuti, questa volta. Non metto zucchero nel caffè, non addolcisco nulla per principio.

Bevo il caffè seduto sulla poltrona di stoffa bordeaux, il colore che preferisco. Fisso una fotografia poggiata alla parete di fronte e su una pila di libri su un piccolo tavolino. È la fotografia che amo più di tutte, una trilogia di dettagli da cui emerge un’espressione che non sta in fotografia. L’espressione dolce e sospesa di Miriam, la fotografa. Il caffè va bevuto senza fastidi intorno, per questo mi sono seduto, per evitare il leggero capogiro dovuto alla breve dimenticanza. Forse neanche un giro di giostra. Riprendere possesso dei propri arti, del suono del sorseggio, del calore tra il palato e la gola, risalire a sé poggiato sui cuscini morbidi del divano, riconoscere tutto dell’ambiente intorno, la fotografia, la parete, i libri posati lì senza un motivo, la copertina del libro di Böll che sto leggendo. E nessuna fatica.

Sono un privilegiato, sorseggio il mio caffè come un premio importante e riduco a un nulla la povertà della mia esistenza, seduto su un sofà  dalla stoffa bordeaux e dal mare calmo, come calma è la luce che mi investe, luce che lascio morire chiudendo gli occhi, sorseggiando un altro po’ di caffè, caffè che gocciola dentro la voragine e sprofonda, gocciola lentamente come solo la lentezza sa fare, gocciola sulle pantofole di un clown che piange.

Il signore di mezz’età con il cappello nuovo in testa mi chiama e mi scuote il braccio, bisbiglia qualcosa, ghirigori verbali che vorticano e fuggono via, mi osserva con l’aria preoccupata “Tutto bene? Sta bene, signore?”. Non mi viene da pensare nulla, mi viene da sorridere e annuisco con la testa. Sono nella giostra, a breve mi fermerò e ringrazierò. Mi alzo dal sedile in pietra lavica dal mare mosso e freddo, lentamente come il caffè gocciolante, ringrazio il clown rasserenato con il cappello nuovo in testa e rientro nella mia voragine. Cammino a piedi con quel che ricordo di me e della strada, da via Cavour procedo verso piazza S. Domenico e poi a destra, laddove ho sistemato i ricordi di lei, i suoi tremori e i suoi bisbigli, sempre a piedi, la Biblioteca Zelantea e la pietra lavica di via Marchese di San Giuliano, la gita sui Nebrodi ed una fotografia che poggia su una pila di noi, sempre dritto fino all’autovettura che aspetta, ferma e spenta, con la sua voragine di chilometri andati.

Vorrei contarli, vederli, osservarli. Sprofondati nella voragine o costretti a rincorrersi poco sopra il palato. I miei correlati neurali della coscienza. Saranno eleganti o anonimi? Rabbiosi o tranquilli? Che ne è di essi mentre mi perdo per aspettare la giostra? La voragine si svuota ed io non ho dove andare, non c’è vicolo cieco che possa contenermi, nessuna traccia a destra o a sinistra, nessun mare calmo o agitato, nulla, un nulla che svuota i meccanismi neuronali, seppur minimi e necessari, che ferma il tempo, di più, lo azzerra, piccoli bigbang e giri di giostra a seguire. Riemergiamo senza fatica, io e i miei correlati neurali della coscienza, e ci gustiamo un caffè o un sorriso, e riprendiamo il cammino delle faccende quotidiane, spolverare i libri o preparare un risotto dal sapore nuovo, con le spezie fresche coltivate in giardino e il ricordo di lei poggiato sul piano lavoro accanto alla cesta con i carciofi da pulire, una faccenda dura perché è il cuore che dobbiamo ottenere e il cuore è nascosto, è rimasto da qualche altra parte nella voragine e i miei correlati neurali della coscienza stentano ad arrivarci, con il coltello potrei graffiarlo, ferirlo, scalfirlo ma i ricordi di lei sono lì, lo sappiamo bene, lontani dal quell’idea di me che la mia mente cerca di nascondermi. 

La fotografia di Miriam è davanti ai miei occhi, poggiata su una pila di libri da spolverare. Accanto alla Biblioteca Zelantea c’era il vecchio liceo che frequentavo, ricordo una lunga scala dritta e in alto, a controllare l’ingresso degli alunni, il Preside che faceva cenno di far presto. Adesso non c’è più nulla, né il Preside né la scala né il liceo. Passo accanto all’ingresso scarno e spolvero i libri che reggono la fotografia, la pietra lavica del marciapiede è sempre la stessa, il mare è mosso. Seduto sul bordo del bagno con l’acqua calda pronta il clown piange, le gocce del caffè macchiano le pantofole, “c’è una bella parola, niente, non pensare a niente”. Impiatto il risotto ai cuori di carciofo, verso il vino nel calice e andiamo a cercare i ricordi di lei, giù nella voragine. Non pensare a niente.

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