Senza nulla da dire

Senza nulla da dire me ne sto seduto sui miei pensieri, ammutolito dal rollio del treno. Non sto comodo ma non ci faccio ormai più caso. Misuro il tempo dalle pagine sfogliate da una donna che legge un libro di fronte a me. Ne ho contate quindici. Dopo quattro pagine, però, un leggero sussulto dei miei pensieri ha fatto sì che ella mi abbia guardato segnando una pausa nella sua lettura, ritengo quattro o cinque righe, quattro o cinque righe dei suoi occhi su di me.

Il sussulto è stato causato da un leggero moto d’ansia, una galleria si è offerta buia a noi e noi siamo entrati di lì a poco dentro lei. Ho sempre odiato il buio curvo delle gallerie dei treni, il muro logoro e scavato a pochi metri dal vetro, il colpo d’aria fredda, il rumore acido, la vettura che si riempie di un nulla che non sa di vita, la luce accesa sulle nostre paure, sui volti che pur sapendo dei luoghi scavati stanno in apprensione in attesa del cielo stellato o della pioggia che cade sovrana.

Riprende a leggere mentre una curva accennata sbanda i miei pensieri, quattro o cinque righe appena su di me, ammutolito e senza nulla da dire.

La donna non ha bagagli, solo una piccola borsa di pelle, o similpelle, nera, con una cerniera laterale mezza aperta e con un marchio a me ignoto. Scarpe nere e abito nero, elegante ed essenziale. Legge senza occhiali e sfogliando le pagine si nota lo smalto rosso sulle unghie ben curate.

Mi guarda una seconda volta, due o tre righe questa volta, come a chiedersi perché non legga anche io. Il tempo in treno, quel tempo beffardo che ci mette a sedere e ci conduce ben lontano da dove siamo partiti, che sa di propositi e sonnecchiamenti, è il tempo che ben si appoggia ai libri e alle riviste, un tempo da sfogliare, che sa di poterci condurre ben più lontano di dove dobbiamo arrivare. Perché non leggo? Ho con me il mio libro da leggere, chiuso, al buio e al riparo dai miei pensieri. Lo leggerò. Misuro il tempo con il tuo libro. Si può dare il “tu” ad una donna sconosciuta e che mi osserva di tanto in tanto anche se per poche righe, qualche parola? Posso darle del “tu” nel mio pensare?

Ecco che la galleria è terminata, la normalità ferroviaria riprende posizione e anche io mi rilasso sul sedile. Accavallo una gamba sull’altra e, così facendo, sfioro con la scarpa il suo ginocchio. Il tuo ginocchio. Il libro si arresta, si abbassa di quel poco da poter incrociare i suoi occhi. I tuoi occhi, ancora pieni di lettura, profondi e assenti. Non ho nulla da dire e tento di scusarmi con un sorriso, bofonchio lo stesso uno “scusi” e mi odio, come spesso so fare. Riprende a leggere, per nulla infastidita, per nulla interessata a me.

Il tempo nel treno gioca a nascondersi, riempie le righe di un libro e i miei pensieri e rimbalza usando occhi che leggono e occhi che sonnecchiano sul finestrino come tappeti elastici. Sono entrato dentro il tuo libro, tra un riga e l’altra, mi sono sdraiato lì, lo spazio di tre o quattro righe, senza chiederti permesso, hai osservato la mia figura, qualcosa di me, la mia barba forse, o gli occhiali verdi, i miei occhi miopi, preoccupati. E ti ho guardata, ti ho spogliata, ho passato il mio dito sul tuo smalto rosso e ti ho tolto le scarpe, ti ho adagiata qui, su un sedile di un treno regionale, scomodo e malmesso, e ho tolto il nero dalla tua pelle, ho chiuso il libro, ho chiuso gli occhi.

Li riapro mentre il treno entra in una nuova galleria, il vento obliquo investe i miei pensieri e sussulto sul sedile. La luce nervosa illumina il sorriso dei suoi occhi, il libro sulle ginocchia e una mano a sostituire il segnalibro. Ha rimesso il nero sulla pelle e osserva divertita lo smalto rovinato sull’unghia di un dito. Mi guarda come si guarda una riga da leggere, da mormorare tra i denti, mi legge senza muovere gli occhi.

E’ davvero un bel libro, mi dice, glielo consiglio.

Senza nulla da dire le sorrido standomene seduto sui miei pensieri ammutoliti dal rollio del treno.

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