La rarità

E’ un filo sottile, lungo della lunghezza necessaria, senza residui superflui o segmenti mancanti, un filo privo di memoria, privo di un attimo iniziale preciso e misurabile. Potrebbe essere stato uno sguardo da poco mentre il ragazzo, pulito e ordinato, i capelli pettinati e l’aria sorpresa, entra in un’aula per la prima volta, una serie di banchi in fila e molti occhi rivolti verso di lui. Potrebbe esser partito allora o più tardi, durante una chiacchierata scherzosa fra passanti ignari o altrove, in un inizio che nessuno ha mai osservato. Un filo dalla consistenza vetrosa ma elastica e leggera. Un filo di ragnatela emotiva. Una rarità.

Valerio cammina radente il muro strisciando l’umore sulla parete già sporca di scritte e tracce illeggibili. Gli occhi navigano tra il marciapiede logoro e lo spazio che l’attende poco davanti.

I passi silenziosi spostano il tempo, senza voglia.

Vivere non è divertente, è un affare da sbrigare alla meno peggio, respiri, pensieri e faccende da intersecare e poi sbrogliare, ora dopo ora, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Il solito matrimonio divelto, due figli lontani, un ruolo da indossare ogni mattina e qualche birra di tanto in tanto. Respiri, pensieri e faccende.  

Immagina altro, Valerio, e vivere non lo diverte, rallenta il passo e il suo umore scivola un po’ più in basso, lo sguardo sempre a galla e il marciapiede sudicio sotto le suole. Non si può vivere due volte.

A vent’anni passati è un’altra storia e può capitare che non ti accorgi delle proposte preziose della vita, sembra così naturale incontrare il pensare silenzioso o il sapore buono della sua bocca. Qualcosa di dovuto. Sono nato qui e ho diritto a tutto, ai passi sull’asfalto e ai capelli bagnati, alle risate con Tobia e ai baci di Flavia. Spari Paint it black a tutto volume e ti fumi la vita senza pensare al domani, studi la termodinamica e vedi il mondo vestito di entropia e cotone agitare abiti e caos davanti a te. Così deve essere. Così è.

Ma adesso è diverso. La fisica è sbiadita e il cotone è logoro, lo spazio immenso si restringe e ci sono troppi luoghi non visti, troppe mani inabissate, Valerio lo sa. E saperlo non serve.

La vetrina illuminata recita le orazioni di un potere invisibile trascinando a denti stretti cifre e centesimi di roba, luci dedicate e commesse sorridenti, le stesse che scappano via con le briciole nere del commercio asfissiante. Valerio osserva il vetro. Null’altro che vetro. Il suo sguardo non va oltre e non si ferma prima. Non vede il marciapiede, il sogno logoro nel muro, non vede la merce esposta o l’insegna, le scritte che implorano saldi, i prezzi tagliati in rosso, quelli più nuovi in nero, non vede le commesse, il piano coperto da un panno blu. Valerio è rimasto impigliato nel vetro, nella trasparenza cieca della vetrina che sta dinanzi a lui.

Flavia ricorda quel momento come se fosse accaduto di recente, il fatto è che lo ha ricucito dentro la sua pelle, dentro il sistema venoso, lo ha ripiegato e posizionato ad est del suo cuore, lontano dai rumori della gente. Poi ha ripreso a respirare e a guardare gli occhi degli altri, ha avuto due figli e un gatto gentile, ha riso molto per dimenticare ferite e foglie cadute da braccia andate via, inesorabili. 

Di solito esce da casa presto, quando la luce comincia a scardinare la notte, e cerca l’orientamento per la vita nel mondo in quel bagliore illusorio, poi si immerge nella sua auto, nelle strade, nel mondo senza orientamenti e senza bagliori. Così tutte le mattine si perde.

In ufficio Flavia naviga nel tempo che scorre avanti e indietro, risponde alle chiamate e scrive, scrive per gli altri e di altri, di un mondo organizzato e violento, scrive parole non sue, scrive e dialoga, dialoga e scrive. Poi tutto finisce e il tempo riprende il suo verso, dall’alba al tramonto.

Quando Flavia entra in casa non si trova. Trova tracce di sé, trova il libro aperto e da finire, trova una famiglia evaporata e aspra, trova un gatto gentile, i piatti da lavare, la lavatrice con l’oblò aperto, la polvere sul parquet, trova la cena da preparare, il sonno dimenticato sul divano.

A vent’anni è diverso. Ti guardi e trovi ciò che cerchi, il sapore dolce della sua bocca e quelle parole silenziose e sole che cercavi senza saperlo. Come se fosse dovuto, come i passi che lasci sull’asfalto, i capelli che asciughi al sole, una risata con Tobia, un bacio rubato con Valerio.

Apri un libro e ti fumi la vita senza pensare al domani, studi la politica e vedi il mondo che si organizza e si regola davanti a te. Così deve essere. Così è.

Stasera le vetrine illuminano il buio e nascondono gli ultimo annegati nel Mediterraneo, ci sono i saldi che affollano le spiagge e il rumore delle buste che strisciano mentre si passa dalle porte strette. Flavia accarezza un’emozione indefinita tra la gola e il cuore, ad est del suo cuore e blocca qualcosa, forse il tempo. E’ tempo di ritrovarsi, il tramonto ha lasciato spazio al buio della sera e le commesse abbandonano i loro sorrisi per imprecare contro la paga troppo bassa. Il vetro è pulito e senza aloni, solo una leggera traccia di mano di bambino, giù in basso. Flavia osserva il vetro, solo il vetro, il suo sguardo non va oltre e non si ferma prima. E rimane impigliata nel vetro, nella trasparenza cieca della vetrina che sta dinanzi a lei.

Il filo è trasparente, ripiegato ad est del cuore, lungo della lunghezza necessaria, mai misurata. La trasparenza cieca del vetro ne protegge l’inizio e la fine, i due capi liberi di attraversare vetri, tempi, esistenze, volti. Impigliati e assenti Valerio e Flavia si baciano a lungo.

Il filo ha una consistenza vetrosa ma elastica e leggera. Un filo di ragnatela emotiva. Una rarità. 

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